Analisi
di Eugenio Marino

Per far uscire il Venezuela dalla crisi in corso, sarebbe più che opportuno che la comunità internazionale, magari sostenendo compatta il Gruppo di contatto di Montevideo, insistesse per ottenere oggi, da Maduro e Guaidò, l’impegno all’indizione di quel referendum revocatorio che Maduro stesso ha negato malamente nel 2016

Il piccolo Venezuela è uno dei Paesi più ricchi al mondo in termini di materie prime. Possiede, infatti, una capacità di riserve petrolifere calcolate in 300 miliardi di barili, superiore persino a quella dell’Arabia Saudita. A questo primato petrolifero si aggiungono i minerali oggi di primaria importanza per la fabbricazione delle tecnologie di telecomunicazione e per i satelliti artificiali (cioè la strumentazione che sempre più connoterà lo sviluppo futuro del pianeta): cadmio, cobalto, ferro e l’intramontabile oro, tanto per fare qualche esempio. Risorse alle quali guardano con crescente interesse le grandi potenze economiche e finanziarie, che hanno capitali, tecnologie e know how per estrarli, raffinarli e commerciarli nel libero e fruttuoso mercato globale. Questa situazione fa del Venezuela uno dei Paesi strategici negli equilibri mondiali.
A fronte di questa grande ricchezza naturale, il Venezuela non ha mai avviato un ammodernamento diversificato delle sue potenzialità produttive, così come non si è mai affermata una vera borghesia commerciale e, di conseguenza, una classe dirigente capace e autonoma. Viceversa, il Venezuela ha puntato con tutti i suoi governi a “distribuire” la “ricchezza” nazionale proveniente dal petrolio: ovviamente con tassi di equità sociale molto variabili a seconda dell’orientamento politico dei governi che si sono succeduti.
L’arretratezza infrastrutturale, industriale e commerciale si è accentuata con Chavez e Maduro in un sistema nel quale la ricchezza prodotta dal petrolio andava a ingrossare soprattutto la spesa pubblica per servizi sociali, istruzione, assistenza, sanità e determinava scelte e alleanze internazionali.
Questo tipo di politica interna e internazionale di Chavez e Maduro si inserisce in un contesto nel quale il ruolo strategico del Venezuela potrebbe favorire o ostacolare l’egemonia globale degli Usa nella sfida con Russia e Cina. E sia Chavez che Maduro, in questo contesto, hanno preferito schierarsi con gli ultimi due, nella ricerca di un’alternativa agli Usa. Da anni proprio Russia e Cina sono i più importanti creditori del Venezuela. E non c’è da sorprendersi per queste dinamiche che non sono affatto originali o nuove, basti pensare – con tutte le differenze del caso – al paziente e articolato lavoro di tessitura diplomatica e internazionale svolto da Enrico Mattei con l’Eni nel secondo Dopoguerra italiano.
Tutto ciò rende la situazione venezuelana estremamente complessa e delicata, sia su un piano politico ed economico interno che su quello internazionale. E se pure la soluzione alla crisi va trovata all’interno dei confini, è impossibile prescindere dal contesto e dagli attori internazionali.
Sul piano interno, poi, la crisi è triplice: economico-sociale, poiché il Paese vive una inflazione mai vista, la disoccupazione è a livelli altissimi, la povertà è diffusa oltre ogni limite, mancano cibo, medicine, carta, spesso l’energia elettrica e tutto ciò che si importa in termini di prodotto finito; umanitaria, perché la povertà e la mancanza di alimenti e medicine (aggravata dalle sanzioni) porta a denutrizione, difficoltà di cure per i malati, mortalità, micro criminalità diffusa, violenza; politico-istituzionale, poiché nessuna coalizione o partito costituisce al momento una maggioranza chiara e democratica nel Paese o mostra di avere proposte e leadership adeguate. Si assiste da anni a una incapacità di coabitazione tra Governo Maduro e Assemblea legislativa (a larga maggioranza dei partiti dell’opposizione) che ha portato a uno scontro radicale tra i due poteri costituzionali.
Una situazione che si trascina da tempo e per la quale, se le colpe possono essere distribuite e attribuite a più soggetti e condizioni, è chiaro che la responsabilità maggiore sta in capo a chi governa da anni il Paese. Maduro, infatti, non solo non ha trovato le soluzioni economiche e politiche per uscire dalla crisi o almeno migliorare le condizioni generali del Paese, ma ha spesso usato il suo potere per operare forzature istituzionali, carcerazioni prolungate di avversari politici senza processo o condanne definitive, istituzione di poteri paralleli e a volte sostitutivi di quelli costituiti e legittimi. Al tempo stesso sottraendosi, con artifici formali e forzature, a passaggi politici determinanti, come il referendum revocatorio previsto dalla Costituzione venezuelana e per il quale si erano raccolte le firme nel 2016.
Proprio nell’ottobre del 2016 il sottoscritto e il presidente del Comitato per gli italiani nel mondo della Camera, Fabio Porta, eravamo a Caracas per incontrare sia esponenti della maggioranza chavista, sia il Presidente della Camera Luis Florido e diversi parlamentari dell’opposizione venezuelana e della commissione Affari Esteri per sostenere la richiesta del referendum e il dialogo tra le parti. E proprio durante quell’incontro alla Camera venezuelana, arrivò la notizia della sospensione del referendum, che ci gettò nello sconforto perché capimmo – e dichiarammo pubblicamente – che negare il referendum esasperava ulteriormente gli animi, divideva la popolazione e indeboliva il difficile dialogo tra Governo e opposizione.
E così fu, poiché fino a quel momento c’erano un governo legittimo e riconosciuto dalle opposizioni e una Camera legislativa altrettanto legittima e riconosciuta dal Governo e lo scontro era soprattutto di merito politico. Da quel momento, da quel tragico errore di Maduro, lo scontro ha mutato carattere ed è divenuto istituzionale, con reciproche delegittimazioni culminate nel rifiuto delle opposizioni di partecipare alle elezioni presidenziali dello scorso anno; Maduro di contro, ha lavorato per delegittimare la Camera legislativa e le opposizioni, creando in modo molto discutibile una Assemblea Nazionale Costituente che si oppone e si è sostituita nei suoi poteri alla legittima Camera legislativa. Il risultato, dopo tre anni, è stato il radicalizzarsi delle posizioni, che ha reso impossibile la coabitazione istituzionale, il dialogo politico e l’uscita dalla crisi economica.
Per quanto mi riguarda il giudizio su Maduro è negativo su tutti i piani e penso che su di lui ricadano le maggiori responsabilità dell’attuale crisi.
Detto questo, non c’è oggi chi non veda che lo scontro istituzionale, la proclamazione di Guaidò come Presidente a interim, configura un quadro in cui due poteri istituzionali si disconoscono a vicenda, ma sono condannati alla coabitazione, entrambi impossibilitati (o incapaci?) a prevalere sull’altro. D’altro canto il ruolo dell’esercito, sempre fondamentale in certi scenari, è decisivo. Le forze armate, pur rimanendo formalmente e in modo maggioritario fedeli a Maduro, sono nei fatti divise, ma lo Stato Maggiore nella crisi attuale osserva, consulta gli interlocutori internazionali, non contro, ma in modo autonomo da Maduro, senza assumere, per il momento, un proprio, attivo protagonismo (per fortuna, vorrei aggiungere).
Ecco che questa divisione attraversa le istituzioni, i poteri, la politica, la popolazione, al di là della retorica o propaganda chavista tendente a dimostrare che Maduro ha ancora un consenso molto ampio o che, di contro, siano invece le opposizioni ad essere largamente prevalenti. I media venezuelani, poi, vivono la medesima radicalizzazione e contrapposizione, quasi da tifo, rendendo più difficile l’informazione e la formazione di una opinione pubblica consapevole e matura.
La comunità internazionale ha mostrato nei lunghi anni passati disinteresse per quanto avveniva in Venezuela e, dopo che la questione è esplosa con la proclamazione di Guaidò a Presidente a interim del Paese, una certa inadeguatezza, che ha portato a confondere pericolosamente il piano politico con quello istituzionale, per lo più nella inconsapevolezza di ciò che sia, davvero, il Venezuela oggi. Un errore grave compiuto da molti media e governi e al quale si sono per fortuna sottratti alcuni attori di primo piano quali, ad esempio, l’Alto Commissario per la politica estera europea, il Governo dell’Uruguay e tutti coloro che sostengono con forza e convinzione il Gruppo di contatto di Montevideo.
I sinceri democratici di tutto il mondo guardano da sempre all’Onu, con tutti i suoi limiti e le sue lentezze. L’Onu è nei fatti l’unico organismo internazionale legittimato a rappresentare tutti ed eventualmente ad avallare un intervento di qualsiasi tipo da parte della comunità internazionale. Ma finora, sul Venezuela le Nazioni Unite fotografano lo status quo istituzionale: nemmeno l’Onu può sconfessare l’una o l’altra delle istituzioni che si fronteggiano in Venezuela (Governo e Camera legislativa), auspicando di fatto una soluzione “interna” della crisi in atto. Ma come può arrivare dall’interno una soluzione mancata fino a oggi?
Il ruolo della comunità internazionale può essere importante. Ma sarà comunque necessaria la presa di parola del popolo venezuelano.
Non credo sia dirimente stabilire cosa sia realmente successo lo scorso 30 aprile. Ciò che conta è sapere che quella data ha segnato un altro momento importante nel processo della crisi venezuelana. Uno degli strappi fortemente simbolici che connotano ormai il lungo conflitto che probabilmente durerà ancora molto e che rischiano di allontanare un esito pacifico e politico della crisi.
Maduro, dopo anni di pugno di ferro, violazioni della Costituzione, arresti di oppositori politici, vittorie in elezioni alle quali il grosso dell’opposizione non partecipava, non è riuscito a migliorare le condizioni materiali ed economiche del suo Paese e il suo consenso si è certo eroso. Il blocco che lo sostiene non è però compatto come si penserebbe. Lo stesso Deosdaso Cabello, che Maduro ha voluto a presiedere l’Asemblea Nacional Constituyente (che ha di fatto sostituito l’Assemblea legislativa presieduta da Guaidò ed eletta in una consultazione considerata legittima anche dal Governo), sarebbe più propenso al dialogo e a un accordo con le opposizioni, tanto da configurare un sotterraneo conflitto interno al chavismo.
Ma Guaidò, a sua volta, non è pienamente legittimato nel suo ruolo di capo delle opposizioni perché non è passato nemmeno lui (e nessun leader delle opposizioni) da una consultazione elettorale. Al contrario, proprio ora che l’uscita di scena di Maduro si vorrebbe più vicina, deve contrastare l’ostilità del vecchio gruppo dirigente della galassia delle opposizioni: Antonio Ledezma, Leopoldo Suarez, Henrique Capriles, per fare alcuni nomi. Allo stesso modo subisce il peso di Leopoldo Lopez, il più radicale e intransigente oppositore di Maduro, da molti indicato come il leader più vicino all’America di Trump e da questa fortemente condizionabile. Descritto come liberista di destra, anticomunista, Lopez e il suo partito, Voluntad Popular, si autocollocano paradossalmente nella corrente della “socialdemocrazia” e della “rivendicazione sociale”, di “ispirazione progressista”. E Voluntad Popular è membro dell’Internazionale Socialista, mentre ne è escluso il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) di Maduro.
Insomma le opposizioni venezuelane, rappresentano una galassia molto articolata e dispersa, dove le categorie politiche e concettuali cui noi europei siamo soliti far riferimento per orientarci aiutano poco. Una trentina di partitini, che vanno da componenti sinceramente socialdemocratiche a gruppi di destra liberista, dai quali lo stesso Guaidò proverrebbe, anche se ne prende progressivamente le distanze a vantaggio di un posizionamento più compatibile col ruolo di leader di tutto il fronte dell’opposizione.
Questo il contesto nel quale molti – me compreso, per quel che vale – sono convinti che Maduro non sia la soluzione per il Venezuela, ma uno dei principali problemi, ragion per cui sembra non solo auspicabile, ma ormai inevitabile un suo superamento come Presidente. Tuttavia, i tempi di questo superamento restano incerti, nonostante le sempre maggiori difficoltà del successore di Chavez, i sempre minori sostegni interni ed esterni.
Questo il contesto di incertezza e di reciproche debolezze che richiederebbe invece alcuni passaggi, non definitivi, ma necessari per condizionare in senso democratico l’evoluzione della crisi venezuelana. Sarebbe più che opportuno che la comunità internazionale, magari sostenendo compatta il Gruppo di contatto di Montevideo, insistesse per ottenere oggi, da Maduro e Guaidò, l’impegno all’indizione di quel referendum revocatorio che Maduro ha negato malamente nel 2016 e di cui le opposizioni non parlano più, ostinandosi nel ribadire l’illegittimità dell’attuale presidente e puntando direttamente a nuove elezioni presidenziali.
Il referendum potrebbe essere la mossa del cavallo dopo anni di estenuante strategia dell’arrocco: la parola tornerebbe al popolo venezuelano, con una consultazione vera e condivisa, allontanando ogni opzione militare o violenta. Farebbe cadere ogni alibi: Maduro sarebbe chiamato a tentare di recuperare un consenso reale nel Paese e un sostegno convinto della sua parte politica, mentre le frastagliate e litigiose opposizioni dovrebbero individuare una leadership realmente unificante, capace di farsi legittimare dal popolo e non più dalle manifestazioni di piazza, dai media o dalle campagne internet e social.
Non so se ciò accadrà o meno, ma sarebbe auspicabile che il Parlamento italiano lo chiedesse in modo unitario in una mozione che impegni il nostro Governo proprio in questa direzione. Cosa che non costituirebbe ingerenza politica internazionale, che non configurerebbe uno schierarsi ideologicamente con Maduro o Guaidò (né una pilatesca posizione di equidistanza) e che, soprattutto, consegnerebbe al popolo venezuelano la possibilità di indicare la direzione per la soluzione pacifica dalla crisi.
Eugenio Marino

Eugenio Marino

Già membro dell'Assemblea Nazionale e responsabile per gli italiani nel mondo del Pd

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