(e)labora · Summer School 2016

di Vittorio Liuzzi

L’occupazione al tempo della fabbrica digitale

E il lavoro? Questa è la domanda più urgente che emerge da “I nuovi modelli di organizzazione del lavoro nella Fabbrica 4.0”, appuntamento del secondo giorno di (e)Labora. Il professor Patrizio Di Nicola – docente di Sistemi organizzativi complessi presso la facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Roma “La Sapienza” – parte da un confronto tra le quattro rivoluzioni industriali che si sono succedute nel tempo.

Alla fine del XVIII secolo, la Prima rivoluzione industriale è rappresentata dall’introduzione di macchine a energia meccanica. Nella prima metà del Novecento, la catena di montaggio e la produzione di massa rappresentano la Seconda rivoluzione. È il tempo del taylorismo e del fordismo. Terza rivoluzione: nella seconda metà del Novecento, l’elettronica e l’automazione entrano in fabbrica con i primi robot. Ed eccoci alla Quarta rivoluzione, l’Industria 4.0: internet e scambio di dati nel settore delle tecnologie di produzione. Siamo all’avvento di sistemi cibernetico-fisici, internet delle cose e cloud computing – spiega Di Nicola.

Industria 4.0 intende creare una “fabbrica intelligente”. In grado di monitorare autonomamente i processi fisici, creando una copia virtuale del mondo fisico e prendendo decisioni decentrate in maniera intelligente. Non necessariamente con l’apporto continuo del fatture umano. Il passaggio dal digitale al “reale”, comprende la manifattura additiva, la stampa 3D, la robotica, le comunicazioni, le interazioni machine-to-machine e le nuove tecnologie per immagazzinare e utilizzare l’energia in modo mirato, razionalizzando i costi e ottimizzando le prestazioni.

 

E il lavoro? Appunto, racconta Di Nicola: dalla ricerca “The future of the Jobs”, presentata al World Economic Forum nel gennaio 2016, è emerso che, nei prossimi  anni, fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. L’effetto sarà la creazione di 2 milioni di nuovi posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posizioni, per lo più nei lavori di ufficio. Ne deriva la necessità di forti investimenti in formazione continua verso professioni nuove ed emergenti, possibilmente in settori in cui non si “corre contro le macchine”.

“Adattarsi o perire, ora come sempre, è l’inesorabile imperativo della natura.” Questa citazione di H. G. Welles è stata posta da Alec Ross in epigrafe al suo libro “The Industries of the Future”. Ross, esperto statunitense di innovazione, racconta: ridotta ai suoi minimi termini economici, la scelta tra impiegare esseri umani e acquistare e attivare robot implica un compromesso in termini di spese. Il lavoro umano comporta bassissime “capex” (capital expenditure: spese di capitale) – pagamenti anticipati per cose come costruzioni, macchinari e attrezzature – ma alte “opex” (operational expenditure: spese operative), costi giornalieri come salari e indennità per i dipendenti. Le tecnologie presentano una struttura di costi diametralmente opposta: i costi di capitale anticipati sono alti, ma quelli operativi sono minimi – i robot non percepiscono uno stipendio.

 

Con il continuo progresso della tecnologia spariranno molti posti di lavoro. I pericoli per le società che non gestiranno bene queste transizioni sono evidenti. Nel 2013 due ricercatori dell’Università di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, avevano gettato nello sgomento il mondo del lavoro, sostenendo che il 47% dei posti di lavoro nel mercato americano rischiano di sparire nei prossimi vent’anni a causa dell’automazione. Da questo trend si salvano soltanto i lavori più creativi, per i quali il contributo umano è maggiore e non facilmente sostituibile da un computer.

Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, ricercatori al MIT di Boston, nel loro libro del 2011 “Race Against the Machine”, ricorda ancora De Nicola, partono dalla considerazione che tra il 1995 e il 2011 l’America ha visto una importante crescita del Pil e, dopo la crisi del 2007, una fase di discreta ripresa. Ciò nonostante, la forza lavoro impiegata rispetto al totale disponibile è diminuita da circa il 63% al 58%. Quindi mancano all’appello milioni di posti di lavoro. I nuovi posti di lavoro creati negli ultimi 4 anni non sono sufficienti nemmeno a far fronte all’aumento della popolazione, e tanto meno a riassumere i 12 milioni di americani che hanno perso l’impiego durante la crisi 2007-2009. Di questo si tende a dare una spiegazione eminentemente economica (la produttività globale, ad esempio), mentre secondo i due studiosi bisogna prestare maggiore attenzione all’impatto della tecnologia sulle competenze, le retribuzioni e l’occupazione: se è vero che il progresso digitale porta, in generale, alla crescita della torta economica, è anche vero che lo fa impoverendo molte persone.

In settembre, due mesi dopo (e)Labora, da una parte, Federmeccanica presenta una ricerca che dimostra il ritardo diffuso delle imprese italiane nel prepararsi alla Fabbrica 4.0. Dall’altra, il governo lancia il proprio piano di stimoli allo sviluppo della stessa. È partita la sfida del Lavoro 4.0.

Vittorio Liuzzi

è Web Writer e Content Strategist di L&W

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