Diritto
di Paola Saracini e Lorenzo Zoppoli

In merito alla sentenza della Corte Costituzionale sui licenziamenti illegittimi, la soluzione di carattere economico – imposta, per così dire, dal tipo di tutela attualmente prescelta – potrebbe essere quella di prevedere una sorta di indennità occupazionale a carico del datore di lavoro rapportata alla retribuzione dovuta da ultimo e fino a una nuova assunzione

1. La sentenza dell’8 novembre 2018, n. 194, facendo giustizia delle interpretazioni che considerano la tutela del lavoro un semplice corollario della libertà economica dell’individuo, ha indubbiamente il pregio – da molti rilevato – di rimettere al centro il lavoro come diritto fondamentale della persona1. Ciò nonostante il giudice delle leggi non cambia passo rispetto a una precisa scelta operata già da qualche anno dal nostro legislatore e cioè che la partita del “diritto alla stabilità” si gioca sul piano indennitario. La pronuncia non rimette affatto in discussione il tipo di tutela prescelto dal legislatore per il lavoratore licenziato, di carattere economico/indennitaria e non reintegratoria, ma attiene, più semplicemente, alla concreta disciplina prevista per quantificare tale indennità: come noto da calcolarsi in un range predeterminato tra un minimo – assai basso – e un massimo, ed ancorata a un unico criterio, l’anzianità di servizio del lavoratore.
In sintesi la Corte “colpisce” l’automatismo con cui il legislatore aveva inteso realizzare due obiettivi: rendere preventivamente calcolabile con una semplice moltiplicazione la sanzione indennitaria in caso di licenziamento illegittimo; ridimensionare l’intervento del giudice nell’applicazione della disciplina protettiva dell’interesse del lavoratore a conservare il (contratto di) lavoro. Un automatismo che, “importando” la versione italiana del cosiddetto firing cost anglosassone, per la verità alquanto semplificatoria anche rispetto all’originale2, confinava il giudice in un ruolo poco “fastidioso” per l’imprenditore.2. È questo il sistema “bocciato” dalla Consulta. Un sistema che, secondo la Corte, essendo fondato unicamente sull’anzianità di servizio del lavoratore, è omologante e non elastico e non consente un soddisfacente bilanciamento tra interesse dell’impresa e diritto alla stabilità del lavoro, così come tutelato dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Risulta inoltre incompatibile con l’articolo 3 della Costituzione perché non ponderato né ponderabile in base ai molti fattori che possono diversificare le situazioni concrete pregiudizievoli per i lavoratori licenziati illegittimamente. Infine – aggiunge la Corte – l’automatismo sanzionatorio è strutturato in modo tale da non configurare una sanzione ragionevole e adeguata e, sotto tale profilo, contrasta anche con i parametri di cui all’articolo 24 della Carta sociale europea (riveduta), considerata una norma interposta da applicare nel giudizio di costituzionalità in base agli articoli 76 e 117 della Costituzione.
Rispetto alle diverse questioni sollevate nell’ordinanza di remissione (Tribunale di Roma del 26 luglio 2018) e nonostante le possibilità offerte dalle connessioni sistematiche tra le varie discipline sui rimedi ai licenziamenti illegittimi, la Corte, a dire il vero, delimita al massimo l’ambito dello scrutinio di costituzionalità, pronunciandosi solo sull’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo. 23/2015, in quanto riferibile alla sanzione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a una lavoratrice assunta dopo il 7 marzo 2015. Pur tuttavia, si tratta di una sentenza dal rilevante impatto sul contratto di lavoro a tutele crescenti (Catuc); essa determina, infatti, una sorta di effetto ablativo del “cuore” della relativa disciplina, in cui, appunto, le tutele crescenti si risolvevano interamente nel graduale incremento delle sanzioni per il licenziamento illegittimo con l’aumento dell’anzianità di servizio. Inoltre – rispondendo a condivisibili ragioni di economia processuale – la pronuncia si estende anche alla versione della norma modificata dal cosiddetto “decreto dignità” successivo all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma. Infine l’effetto demolitivo del sistema rimediale tipico del Catuc sembra destinato ad andare comunque oltre l’ambito normativo pur attentamente delimitato dalla sentenza3.3. Se questi sono gli indubbi meriti della 194, il sistema regolativo del licenziamento che ne emerge ha ancora basi concettuali e tecniche incerte. E non su dettagli, bensì su aspetti giuridici fondamentali, che rendono non del tutto convincente lo scrutinio di costituzionalità incentrato sul bilanciamento e sulla razionalità delle differenziazioni. Limitandoci alle osservazioni qui possibili4, innanzitutto è da rilevare che la Consulta riconosce all’indennità di cui all’articolo 3, comma 1, decreto legislativo 23/2015, natura risarcitoria/sanzionatoria e, riprendendo sue decisioni in materia, non richiede il risarcimento in senso integrale del danno, purché ovviamente quest’ultimo risulti “equilibrato”. Il giudice delle leggi, insomma, non propende per una tutela risarcitoria per equivalente – secondo i canoni del risarcimento tipico del diritto civile -; piuttosto, rifacendosi a quanto già sostenuto sin dal 1970 in diverse pronunce sul tema5, ma anche più di recente in riferimento ad altri ambiti6, afferma l’utilizzo di una tecnica di tipo elastico che, tenendo conto pure di altri valori rilevanti per l’ordinamento, non mira a riparare il danno effettivo nella sua integralità. Una scelta che rimanda invece alla tecnica del bilanciamento tra un danno pieno da riconoscere al lavoratore per la lesione del proprio diritto a non vedersi licenziato ingiustamente e l’interesse dell’impresa che, nel caso di specie, si concreta nella sua libertà di organizzazione – e, per quanto qui interessa, nella possibilità di modificare i propri organici -, riconducibile alla libertà di iniziativa economica.
Ma – pur nella consapevolezza della sua complessità – è proprio su tale operazione che il ragionamento della Corte desta, invero, perplessità.
Il giudice delle leggi, infatti, nell’effettuare il bilanciamento tra i contrapposti valori/interessi, non opera né in una logica di tipo definitorio, al fine di comparare i valori costituzionali in campo, né tantomeno individua il contenuto essenziale dei diritti in gioco. Pertanto i termini in concreto utilizzati per motivare il bilanciamento risultano alquanto generici e rimettono il tutto ad un apprezzamento giudiziale che deve esprimersi nel parametrare in concreto l’adeguatezza dell’indennità dalla natura anfibia (risarcitoria/sanzionatoria). Un apprezzamento giudiziale reso ancora più incerto dalla modalità con la quale la Corte richiama i criteri ai quali il giudice dovrà attenersi: che ha portato, da subito, ad interrogarsi circa la loro vincolatività, l’esistenza di una possibile gerarchia tra gli stessi, nonché, più in generale, la loro idoneità a determinare il pregiudizio subìto dal lavoratore7. Insomma, il bilanciamento promosso dalla Consulta non consente architetture sistematiche e aumenta l’incertezza giuridica, lasciando ampi spazi alla discrezionalità giudiziaria o legislativa (ad esempio sul massimo della sanzione: 10, 14, 24 o 36 mensilità?).
Anche se si volesse continuare il percorso della Corte – disattendendo l’impostazione civilistica e, più in generale, l’inquadramento teorico, che indurrebbero non solo a insistere sul risarcimento equivalente ma a ritornare finanche su assetti consolidati (incluso il “paradosso” di un atto illegittimo che produce comunque il suo effetto risolutivo8) -, il bilanciamento proposto dal giudice delle leggi lascerebbe comunque un rilevante vuoto per quanto concerne i criteri di determinazione dei danni derivanti dalla perdita del posto di lavoro.4. Inevitabile allora chiedersi come andare oltre questo scenario incompiuto o comunque alquanto confuso.
Prendendo le mosse dal ragionamento portato avanti nella sentenza 194 è possibile provare a valorizzare il bilanciamento tra contrapposti interessi/valori in chiave, per così dire, “occupazionale”. Infatti, non sembra si possa prescindere da una fondamentale considerazione: il legislatore non può disconoscere il danno per la perdita di ciò che il diritto a non essere licenziati “senza un valido motivo” tutela, in estrema sintesi, prima di ogni altro aspetto: la sussistenza del rapporto di lavoro nella sua immediatezza e concretezza. In questa prospettiva il danno del lavoratore assume una curvatura occupazionale. In altri termini l’ordinamento garantisce il diritto a non essere licenziati arbitrariamente in quanto mira, con ogni evidenza, a evitare, in primo luogo, la privazione dell’occupazione per il lavoratore. Quindi, ciò che viene tutelato, in termini assiologici, è il valore dell’occupazione, in termini concreti, una volta consentita la produzione dell’effetto estintivo del licenziamento, il tempo necessario per trovare una nuova occupazione. Si può parlare, in tal senso, di contenuto essenziale del diritto sancito per il licenziamento arbitrario dall’articolo 4 della nostra Costituzione nonché dall’articolo 24 della Carta Sociale europea (riveduta): un nucleo della tutela irriducibile9.
E allora, sul piano de iure condendo, per una possibile pars costruens di un intervento legislativo che risulta, a questo punto, necessario, la soluzione di carattere economico – imposta, per così dire, dal tipo di tutela attualmente prescelta – potrebbe essere quella di prevedere una sorta di indennità occupazionale a carico del datore di lavoro rapportata alla retribuzione dovuta da ultimo e fino a una nuova assunzione. Un’ipotesi certamente condizionata dalla reale funzionalità di un sistema pubblico di servizi per l’impiego, affidabile tanto per i lavoratori quanto per i datori di lavoro10.

1. Evidenziano, tra gli altri, tale profilo ESPOSITO, Intervento, in ANDREONI-FASSINA (a cura di), La sentenza della Corte Costituzionale sul contratto a tutele crescenti: quali orizzonti?, Ediessse, 2019, p. 147; SPEZIALE, La sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in ANDREONI FASSINA (a cura di), op. cit., p. 51; più cauto ZOPPOLI A., La Consulta interviene sul Jobs Act ma ne evita il cuore: il nuovo bilanciamento nella disciplina del licenziamento, in Diritti Lavori Mercati, 2/2019.

2. Si veda, per qualche spunto, BIASI, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Cedam, 2017, cap. III.

3. V. Trib. Bari 11 ottobre 2018 e Trib. Napoli del 26 febbraio 2019 sui licenziamenti collettivi; Trib. Genova ord. 21 novembre 2018 sui licenziamenti nelle piccole imprese.

4. Per una analisi più rticolata si rinvia a SARACINI,
Licenziamento ingiustificato e contenuto essenziale della tutela, in Diritti lavori Mercati, 2018, p. 643 ss.; ZOPPOLI L., Il licenziamento “de-costituzionalizzato”: con la sentenza n. 194/2018 la Consulta argina, ma non architetta, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2019, p. 277 ss.

5. Si tratta delle pronunce n. 194 del 1970, n. 55 del 1974, n. 189 del 1975 e n. 2 del 1986, richiamate al punto 9.2. della decisione della Consulta.


6. Il riferimento è alla sentenza 303/2011, sull’indennità forfettaria spettante al lavoratore nei casi di “conversione” del contratto a tempo indeterminato.


7. Da ultimo, v. GAMBACCIANI,
I criteri legali di determinazione delle indennità risarcitorie nei licenziamenti, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 2018, spec. p. 79 ss.

8. Per un’analisi sui possibili esiti di un’impostazione civilistica del tema, v. ZOPPOLI L., Il licenziamento e la legge: una (vecchia) questione di limiti, in Variazioni sui temi del diritto del lavoro, 2016, n. 3, p. 415 ss.

9. In tal senso, v. SARACINI, Reintegra “monetizzata” e tutela “indennitaria” nel licenziamento ingiustificato, Giappichelli, 2018, cap. 2.

10. Per uno sviluppo dell’ipotesi in parola, sebbene con soluzioni diversificate, si rinvia a ZOPPOLI L., Il licenziamento “de-costituzionalizzato”, cit., p. 293-294 e a SARACINI, Licenziamento ingiustificato, cit., p. 655-656.

Lorenzo Zoppoli

ordinario di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II

Paola Saracini

associata di Diritto del lavoro, Università del Sannio – Benevento

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